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A Berlino vince Claudia

La regista Claudia Llosa afferra l’Orso d’oro di Berlino con un film-denuncia sulle inguaribili ferite inferte alle donne violate durante la guerra peruviana.

Claudia Llosa

Un Perù tutto al femminile, quello narrato da Claudia Llosa nel film ‘La teta asustada’ (“The milk of sorrow”) che trionfa al 59esimo Festival di Berlino conquistando l’Orso D’oro. Vent’anni di violenza, sullo sfondo di una guerra che, dagli ‘80 al nuovo secolo, ha terrorizzato tutto il popolo, con 70mila omicidi ed innumerevoli stupri alle donne perpetrati in nome di un’impietosa pulizia etnica.

La regista, nata a Lima nel 1976 si era già affacciata al pubblico internazionale dal ‘palato fino’ grazie alla regia ispano-peruviana “Madeinusa” (premiata nel 2003 al Festival di La Habana). ‘Nipote d’arte’ dello scrittore Mario Vargas Llosa e del regista Luis Llosa si laurea in Regia a New York e realizza un master di cinematografia a Madrid.

Oggi Claudia è alla sua seconda pellicola e impugna con orgoglio il riconoscimento più illustre che la vetrina berlinese, capitanata dall’attrice inglese Tilda Swinton, riserva ai suoi candidati internazionali. Llosa si fa interprete sensibile di un dolore silenzioso che cova nell’anima e si tramanda anche alle nuove generazioni di donne, figlie di una modernità che non cancella il passato delle madri violate. Da qui il titolo, “The milk of sorrow”, il latte della sofferenza che, dal seno materno, trasmette un’eredità destinata a trascinarsi ancora a lungo nella psicologia femminile peruviana.

È quel che succede alla protagonista, Fausta (Magaly Solier), incontrata già dalla prima scena al capezzale della mamma andina che diffonde un lamento intriso d’’inguaribili’ ricordi. In lei il seme dell’oltraggio ha attecchito con una tale prepotenza da spingerla ad infilarsi una patata nella vagina per evitare a se stessa ciò che è toccato alla vecchia madre. Un elemento grottesco che fa sorridere la platea di Berlino, ma che non impedisce di assegnare a Claudia il primo premio per un lavoro che muove tra documentario e finzione, in cui gli elementi folklorici, sebbene giudicati un po’ ridondanti, si caricano di significati simbolici e terrifici.

E se lo spaccato mitico e superstizioso portato in auge al Berlinale Palast può sembrare estraneo ad una realtà europea ‘illuminata’, la paura scaturita all’ombra delle Ande non è poi così lontana da quella divampata tra le donne dello stivale. Scioccate dal resoconto ‘medioveale’ d’episodi di violenza quasi quotidiani, non ci sarà da stupirsi se accorreranno numerose nelle sale ad avallare la scelta dell’élite intellettuale che si è espressa nella nicchia berlinese.