Pubblicato il

Viaggiare con la fotografia: Giorgio Palmera

Intervista al fotogiornalista Giorgio Palmera, fondatore di Fotografi Senza Frontiere

Colombia
 Giorgio Palmera/Echo Agency

FOTO: IL REPORTAGE DI GIORGIO PALMERA SULLE FAVELAS DI RIO DE JANEIRO

Ci sono molti modi per viaggiare, e molte professioni che di viaggio si nutrono: la fotografia è una di queste. In particolar modo quando si tratta di fotografia sociale, impegnata, di fotogiornalismo, di un utilizzo del mezzo atto a far conoscere realtà lontane, a volte drammatiche altre semplicemente ‘diverse’ dal nostro immaginario comune. Abbiamo incontrato Giorgio Palmera, fotogiornalista e fondatore di Fotografi Senza Frontiere, ONLUS che si occupa di progetti di formazione legati alla fotografia. Viaggiatore per vocazione e un fiume in piena di entusiasmo per un lavoro che è divenuto una scelta di vita.

Viaggiare per mestiere è il sogno di moltissime persone, come hai cominciato?
Direi che tutto è nato da uno spirito che era già insito in me prima di conoscere la fotografia, da un impulso a ‘saltare’, uscire dal mondo conosciuto. Intorno ai 20 anni, come molti miei coetanei facevo lavori stagionali, e con un paio di amici investivamo il denaro guadagnato in viaggi. La voglia di viaggiare era un motore che avevo dentro, che è nato prima di ogni altra cosa, veniva dalla pancia. Durante uno scalo a Mosca, mentre ero diretto in Giamaica, comprai la mia prima fotocamera a pellicola, e iniziai a scattare da amatore. Fu un amore a prima vista con il mezzo, capii che era una perfetta compagna di viaggio. Ma è stato diversi anni dopo che ho capito che tipo di foto volevo fare, e che potevo scattare per mestiere. Fare fotografie continua ad essere il mio strumento per prendere appunti, per approfondire, per entrare meglio nel viaggio stesso, fare un passo più profondo nei rapporti che creo. Allo stesso tempo la macchina fotografica ti presenta, ti fa da protezione in un certo senso.

Fotografi Senza Frontiere si occupa di laboratori di fotografia, atti ad insegnare ai giovani dei paesi in via di sviluppo un mestiere vero e proprio, ma anche suggerire una prospettiva diversa, in cui per una volta non sono osservati ma osservatori. Come è nata l’idea?
L’idea prese forma durante un viaggio in Nicaragua, che si è trasformato in un’esperienza di due anni. Collaboravo con una ONG (Terra Nuova, ndr) grazie alla quale mi sono trovato a stretto contatto con la comunità, in particolare con i ragazzi e i bambini di strada. Facevo laboratori di fotografia con i giovani del posto, e da qui partì l’idea di moltiplicare, ripetere l’esperienza altrove fosse possibile. Ancora oggi, ogni laboratorio nasce in stretta sinergia con la comunità locale, attraverso qualcuno che la conosce bene (antropologi, sociologi, psicologi) e riesce a metterci in contatto. Noi portiamo il nostro know how, ma sono i locali a dirci come e dove muoverci. Lo scopo finale è formare dei giovani fotografi sul posto che a loro volta prenderanno in mano le redini dei laboratori.

Sei anche fondatore di un’agenzia, Echo.
Sono stato cane sciolto tutta la vita, non mi interessava particolarmente la ‘comunità’ delle agenzie, il meccanismo dei grandi numeri. Ma ad un certo punto io ed altri fotografi affini abbiamo sentito la necessità di averne una, ed abbiamo fondato un’agenzia con un numero ridotto, che si occupa di fotogiornalismo, e per la quale facciamo progetti collettivi. Funziona come un’agenzia ma la gestiamo, per quanto possibile, come una sorta di collettivo.

Parlaci di un luogo a cui sei particolarmente affezionato
Per forza di cose il Nicaragua: per me è casa, è dove sono nato come fotografo, dove sono cresciuto umanamente. E poi ho lavorato 10 anni in Palestina, che è l’altro paese col quale sento un’appartenenza fortissima. La Palestina è un luogo in cui la destrutturazione dei valori di base è fortissima, che costringe a rileggere in maniera del tutto nuova tutte le prospettive che hai. Fra l’altro oggi parte la raccolta fondi per promuovere un nostro progetto sull’arte nella Striscia di Gaza. CLICCA QUI PER VEDERE IL TRAILER DEL PROGETTO E PARTECIPARE ALLA RACCOLTA FONDI

Pensi che incentivare il turismo in posti dove il disagio sociale è alto sarebbe un bene per gli abitanti stessi?
Direi di sì, ma dipende dal tipo di turismo. Il viaggio è un motore fondamentale per riconoscere la piccolezza dei nostri schemi, comprendere l’altro, ampliare le vedute. Però dipende come lo si fa: puoi stare in Brasile a Copacabana a rosolarti al sole, come invece scoprire le realtà delle comunità contadine, o addirittura delle favelas. Puoi fare il safari in Africa, ma anche dedicare un momento agli incontri umani. Ovunque puoi trovare tutte le facce, e penso sia importante togliere i paraocchi, andare per visitare ma anche per comprendere, dedicando sempre un momento a chi vive quei luoghi.

Qual è un Paese dove vorresti andare?
Non conosco molto l’Oriente, sono stato in Thailandia tanti anni fa per un viaggio turistico. Non sono stato in India, e mi piacerebbe andare in Vietnam. Col Centro America e Medioriente ho una storia, un legame, ma ultimamente il pensiero va spesso all’Estremo Oriente.

Ci si stanca di vivere viaggiando? Quando avere a che fare con realtà spesso drammatiche satura?
Io non sono ancora stanco, non ho raggiunto la soglia, anzi mi sento sempre più vivo, le esperienze  mi riempiono. Ho fatto delle rinunce certo, ma sono incredibilmente compensato da ciò che vivo. Vedo situazioni drammatiche, ma finisco per conoscerne la parte umana, legare con le persone, e questo aiuta a non saturarsi mai. Capisco i colleghi che fanno dieci giorni di guerra da una parte, dieci giorni dall’altra, e, a parte il fatto che sono situazioni atroci, non hai mai il tempo di legare, di guardare negli occhi le persone. Immagino che essere sempre bombardati di immagini drammatiche senza compensare con l’aspetto umano possa saturare sì, ma io ho fatto un’altra scelta e questa mi bilancia.

La polemica sulla spettacolarizzazione del dolore nasce ogni anno in occasione del World Press Photo. Ci fai una considerazione? Qual è il limite tra raccontare e sfruttare una tragedia?
Il World Press Photo è minato all’origine: i giornali puntano alla ‘notizia shock’, di conseguenza vogliono pubblicare la ‘foto shock’. Il problema che ne scaturisce è duplice. Da un lato il giovane fotografo usa il sensazionalismo dell’immagine come scorciatoia, si butta nella mischia per vincere il premio e accorciare il suo percorso. Spesso rischiando pure, e mettendo in difficoltà la comunità stessa. Dall’altro credo che fare una foto per vincere un premio sia l’antitesi del fotogiornalismo: il punto è raccontare, e spesso quando si vedono carrellate di immagini ad effetto non si capisce dove sono state fatte, in che contesto.

Quando JFK fu ucciso nell’attentato di Dallas, nessun fotografo professionista riuscì a cogliere il momento dello sparo, ma vi riuscirono due amatori. Brian Wallis, curatore della mostra fotografica attualmente esposta a New York su quel giorno fatidico, dichiara che proprio allora nacque il citizen journalism, e morì il fotogiornalismo. Cosa ne pensi?
Il fotoreporter non può essere ovunque, ma di sicuro in ogni luogo c’è un passante con un cellulare. Tuttavia se la notizia in tempo reale te la può dare l’amatore, il cittadino, l’approfondimento è ancora frutto di un lavoro lungo, impegnativo, progettato, elaborato, studiato, in una parola di fotogiornalismo. Non credo che la professione possa morire, si tratta di due cose diverse.

Cosa consigli ad un giovane che vuole avvicinarsi al mondo della fotografia sociale o del fotogiornalismo?
Di viaggiare. Le nozioni tecniche si possono acquisire in molti modi, dalle scuole, ai corsi, ai tutorial fai da te. Ma se un ragazzo ha pochi fondi da investire, suggerisco di usarli per viaggiare, è la scuola migliore del mondo.  

La meta del tuo prossimo viaggio?
Tornerò presto in Brasile a proseguire il progetto sui Midia Ninja, un collettivo che racconta attraverso tablet e cellulari le proteste nel Paese. Altri progetti mi terranno occupato tutto l’anno prossimo in Sud America: sono paesi vivi, dinamici, in cui i giovani hanno perso la paura, dove c’è un forte impegno sociale, attenzione all’arte, sono posti che stanno risorgendo, pieni di spirito, dove mi sento a casa.

Nell’immagine, una foto dal progetto Desplazados, Colombia. GUARDA IL PROGETTO SU RIO DE JANEIRO
I link per saperne di più sul lavoro di Giorgio Palmera e su Fotografi Senza Frontiere