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Sul ring con le cholitas, wrestler al femminile

In Bolivia le donne combattenti hanno molto successo. E rivendicano così un primato fisico e un’indipendenza rispetto ai colleghi uomini

Cholitas luchadoras
La Presse
Dove i maschi hanno tutine colorate, cinture dorate e inscenano una lotta libera fatta di colpi fittizi e dolori scenografici, loro possiedono lunghe gonne variopinte e tradizionali insieme a leggiadre scarpine portate in abbinamento a mantelle e lunghe trecce nere. Graziose certo, ma non per questo meno letali. Sono le cholitas luchadoras, contadine andine e wrestler in gonnella, che in Bolivia combattono sul ring a colpi di calci, cazzotti e cadute esagerate.

Consolidando così il successo di uno sport che è diventato sia nazionale, sia mezzo di intrattenimento davvero popolare nel paese. E non solo perché la lotta libera – il wrestling – diverte e inganna le folle con l’illusione di una violenza che è invece mascherata e teatrale. Piuttosto, la pratica diventa sinonimo di uguaglianza e di fine di uno sfruttamento che per anni ha colpito proprio la popolazione femminile di origine indigena. Le wrestler in polleras, perché polleras è il nome della tipica gonna indossata anche sul ring, vogliono di conseguenza guadagnarsi uno spazio che è invece di solito declinato al maschile.

E così, dimostrare pubblicamente con colpi violenti ma finti, un’aggressività reale e non edulcorata. Perché le donne, persino sul piano della forza fisica, sono alla pari degli uomini. E tra le star all’interno del gruppo delle cholitas luchadoras, spicca Leonor Cordova, nome di battaglia Angela La simpatica, protagonista anche del corto Las Cholitas Luchadoras, che racconta la propria doppia vita di madre e combattente. Perché il wrestling delle cholitas è un mestiere come un altro. Dà successo e indipendenza economica, e molte di loro come Leonor, possono così permettersi di essere divorziate e mantenere anche il proprio figlio con la pratica della lotta mascherata.

In attesa che la società si evolva a tal punto da fare in modo che le donne indigene possano avere uno spazio pubblico visibile anche fuori da una pratica per certi versi ancora un po’ triviale. 

 

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