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La regina dell’industria culturale

Amy Pascal ricopre uno dei posti più assolati dello star system americano, il trono di presidentessa della Columbia Pictures.

Amy Pascal

Dalle scatole di libri impacchettate alla L.A.Bookstore, alle vette dell’olimpo hollywodiano, attraverso anni di gavetta che la vedono scontrarsi con una concezione maschilista della carriera manageriale.

Nata nella città degli angeli nel 1958, trascorre l’infanzia con un padre economista ed una madre che riflette lo stereotipo intellettuale del ceto medio ebraico. Passa le elementari in una scuola hippie dove, seduti sul pavimento, i bambini sfogliano le pagine di Robert Penn Warren. Sarà per questo che, ancora minorenne, sente il bisogno di trovare subito un impiego.

Il lavoro è per lei come una droga, prima fonte di autostima a cui dedicare ogni fibra del suo essere. Affascinata dal cinema, risponde all’annuncio di un’etichetta della BBC, la Tony Garrnett’s Kestrel Film, che cerca una segretaria. Gli dedica 6 stagioni di febbrile attività e, nel 1985, si guadagna la poltrona di vice-presidente di una delle major più celebri di Hollywood, la 20th Century Fox.

L’anno dopo, il presidente della Columbia, Dawn Steel, la assume come sua vice al comando della major. Steel la ricorda come una brunetta dal guardaroba capriccioso e dallo spiccato senso letterario. Nel 1993, dopo 7 anni di impeccabile servizio, Amy rompe il contratto per accedere alla testa della Turner Pictures, che presto si unirà alla Time Warner. Dopo la fusione, di nuovo la Columbia che, questa volta, le affida la presidenza.

La sua politica si distingue per la promozione di film a tema femminile diretti da registe come Betty Thomas, Nora Ephron, Amy Heckerling, Diane Keaton  e Nancy Meyers. Apprezzata subito dal mondo delle donne e, naturalmente, da quello femminista, attrae su di sé aspre critiche che mirano a svalutarla sul piano manageriale. Il “Premiere Magazine”, ad esempio, la dipinge come scaltra arrampicatrice sociale che gioca il ruolo di vittima della società maschilista per giustificare i flop dovuti a strategie fallimentari.

La sua fama di single incallita non la aiuta certo a scrollarsi di dosso i giudizi caustici dei detrattori. Ma le cose non cambiano nemmeno quando, a 30 anni, sposa Bernard Weinraub, prestigiosa firma del “New York Times”. La stampa si accanisce, attribuendo i motivi dell’unione al prestigio della sua professione.

Ma il reporter spiazza tutti. Abbandona il giornale e salva il matrimonio. La coppia adotta un bambino ed Amy dimostra di sapersi dividere tra la Columbia e il ruolo di madre. Quando è in ufficio non conosce sosta, ma a casa è presente ed amorevole. Molti copioni li legge di notte, alcuni nel weekend.

Malgrado la reputazione letteraria e la personalità da capogiro, Hollywood non smette di sputare veleno. Infieriscono sui flop, celebre quello di “28 Days”, (Betty Thomas, ’00), e riducono a “successi commerciali” i suoi record al botteghino. È il caso di “Panic Room” (David Fincher, ‘02), “Spider Man” (Sam Raimi, ‘02) e “Charlie’s Angels” (Joseph McGinty ‘03).

Film che non brillano certo per spessore e contenuto ma che dimostrano, come già “Piccole donne” (Gillian Armstrong ‘94) o “Ragazze interrotte” (James Mangold ‘00), un’acuta sensibilità per valori e problematiche femminili. Attraverso scelte a volte scomode, la sua carriera svela un impegno battagliero che non cede all’avvento del potere personale.