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Paul Newman: l’ultimo ciak

Il dolore per la sua morte oltrepassa i confini dell’Olimpo cinematografico, coinvolgendo un mondo che gli è riconoscente.

Paul Newman
LaPresse

Hollywood piange il suo astro caduto ma le stelle, si sa, sono destinate a spegnersi. Persino le più lucenti, quelle che si vorrebbero veder brillare per sempre, anche dopo che il tempo ne consegna l’ultimo bagliore. E Paul Newman (Shaker Heights, 1925), dal punto più alto del firmamento hollywoodiano, è destinato a protrarre la sua scia, ben oltre la distanza che lo divide dagli esseri ‘terreni’. Non solo per l’indiscussa grandezza di divo, ma anche per l’altezza del suo esempio di uomo.

Esaltarne il talento d’attore è un dovere che sfiora l’ovvietà. Per lui parlano chilometri di pellicola illuminati dal suo profondo sguardo blu. Proprio quegli occhi, paradossalmente imperfetti, lo avevano consegnato nelle mani dei maestri dell’Actor Studio, quando nel 1949 un difetto di vista lo strappava al suo sogno di pilota. Era l’anno del matrimonio con Jackie Witte, prima moglie, da cui sarebbero nate le sue prime due figlie ed un maschietto, Scott.

Nonostante l’esordio disastroso (ne “Il calice d’argento” recitava “con il fervore emotivo di un autista di autobus che annuncia le fermate locali”) già nel 1956, nei panni di Rockie Graziano (“Lassù qualcuno mi ama” Robert Wise), iniziava la carriera che lo avrebbe consacrato tra i massimi rappresentati del metodo stanislavskijano.

Dopo il divorzio ed il secondo matrimonio (con la collega Joanne Worwood), infatti, mentre il mondo si preparava a saltare nell’era della nuova rivoluzione industriale, Newman viveva la sua stagione aurea di successi marchiati a fuoco nella storia della settima arte. Sono gli anni de “La gatta sul tetto che scotta” (Richard Brooks, 1958), di “Nick mano fredda” (Stuart Rosenberg, 1967), dell’incontro con Robert Redford, l’amico di sempre.

Sullo schermo è fanatico, latin lover e truffatore, la canaglia più affascinante del ‘grande cinema’. Nella vita, sta per ricevere un colpo brutale: nel 1978 il suo Scott è vittima di un’overdose. Dalla disperazione per quella morte impietosa nasce una nuova creatura, l’associazione contro la droga, che Paul battezza come il figlio. Segue la “Hole in the wall gang”, a favore dei bambini malati. Sono solo i primi gesti “benefici” di una lunga serie a cui, d’ora in poi, l’angelo di L.A. avrebbe dedicato energie interiori e materiali.

E mentre ad Hollywood, l’attore non più in erba continua ad impazzare – con un Oscar alla carriera (’86) ed uno come miglior attore (“Il colore dei soldi”, 87) – l’uomo Paul lancia una linea di prodotti alimentari a scopo benefico. I primi 280 milioni di dollari raccolti con i barattoli di salsa “Newman’s Own” sono interamente devoluti in beneficenza. Cinque anni dopo, arriva il primo villaggio vacanze per bambini colpiti dal cancro (proprio il male che lo uccidera’ lo scorso 26 settembre). E quando il nuovo secolo cala il sipario su una carriera che sembrava interminabile (con “Era mio padre”di Sam Mendes), l’impegno silenzioso continua senza sosta, intrecciato alla passione mai sopita per i motori. Un’eredità esemplare che getta sulla sofferenza degli ultimi mesi un velo di dolcezza e che acceca chiunque voglia accostarsi alla sua mastodontica figura.