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Kasi e il suo film nero

Arriva nelle sale “Talk to me”, diretto da Kasi Lemmons, pellicola politicamente scorretta che rispolvera la storia ed illumina il presente.

Kasi Lemmons

Viso pulito, senza ombra di trucco, incorniciato da una cascata di treccine ossigenate, occhi vispi e profondi ed un sorriso alla Whoopi Colbert. È Kasi Lemmons, regista afro-americana ed apprezzata interprete in film come “Vampire’s Kiss” (Robert Bierman’89), Candyman (Bernard Rose’92) ed il celebre “Il silenzio degli innocenti” (Jonhatan Demme’92).

A pochi mesi dal verdetto elettorale che forse vedrà il primo nero sedere al trono della Casa Bianca, arriva nelle sale il suo nuovo film che, attraverso la biografia di Petey Greene, ripercorre le tappe del calvario sociale dei neri d’America. Molti non lo ricordano, personaggio irriverente o, come si direbbe oggi, politically incorrect, che ha avuto l’onere e l’onore di essere il primo presentatore di colore nella storia della televisione americana.

Un film profondamente voluto dalla regista 46enne, che ha sudato non poco per trovare chi le producesse il progetto. In un’America a due facce che, da un lato attende trepidante la vittoria di Obama, dall’atro arrossisce di fronte alle immagini della sua storia più recente, e che preferirebbe – per vergogna, interesse, populismo – non ricordare. È il paese degli anchorman con sorrisi a 50 denti, eroi nazionali riprodotti sui palazzi, contro quella di una voce coraggiosa a cui nulla importava di piacere. È questo l’aspetto che Kasi ha voluto sottolineare di più nel personaggio Greene, magistralmente interpretato da Don Cheadle . Il suo essere schietto, senza filtri, mezzi termini, sfidando politici e benpensanti anche a costo di rendersi insopportabile. Un’epopea antieroica, dai quartieri malfamati, alla prigione dove Greene inizia la gavetta. Dal successo controverso, all’alcolismo, responsabile della rovina umana e professionale di quello che fu il sottofondo vocale dei movimenti antirazziali dell’epoca.

E sebbene la Lemmons non abbandoni mai (come già nei precedenti “La baia di Eva” ’97, “Dr. Hugo” ’98, “The Caveman’s Valentine” ’01) la ‘causa nera’, sviluppata attraverso un’evoluzione temporale ricca di riferimenti familiari per chi ha vissuto i ’60, il suo giudizio umano resta imparziale. Regista impietosa, come il suo maestro Spike Lee, ama rendere dei personaggi anche gli aspetti meno nobili, antieroici. Ce ne sono in tutti gli uomini, nei virtuosi e nei meschini, è una questione di rapporto tra gli opposti. È forse questa la forza del film, l’onestà intellettuale che scolpisce uomini a tutto tonto, mai banali, né stereotipati. Cosa non trascurabile, che permette al film di oltrepassare la sua valenza storica e documentaristica ed abbracciare l’attualità.

Non solo Kasi rinfresca la memoria dei connazionali su pestaggi, vessazioni psicologiche e diritti calpestati ai danni dei “fratelli” negli anni della segregazione razziale. Ma soprattutto, in epoca di campagna elettorale, invita a interpretare con distanza e proporzione, non importa se a bianchi, neri, donne, uomini, repubblicani o democratici, chi vorrebbe il mondo diviso in ‘buoni’ e ‘cattivi’.