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Rita Katz, la donna che pungeva l’ISIS online

In prima linea con SITE, l’organizzazione privata di intelligence che monitora l’attività del terrorismo islamista sulla rete e non solo 

Rita Katz 
Sabina Louise Pierce
É una delle poche personalità in vista dell’opinione pubblica internazionale, per la quale la fama può forse rappresentare un problema piuttosto che un plauso. Rita Katz, la cinquantaduenne ebrea-irachena nata a Bassora nel 1963, si muove nell’ombra per mestiere. Infatti, dal 2002 dà la caccia ai terroristi in rete con SITE, (Search For International Terrorist Entities), il gruppo di intelligence privata con sede nel Maryland, e oggi organismo dal forte peso internazionale che può annoverare tra i propri successi il ritrovamento nel 2007 del nuovo video di Osama Bin Laden prima dell’amministrazione Bush e la verifica, con riconosciuta attendibilità internazionale, della veridicità sul recente video dell’uccisione dei 21 egiziani copti in Libia da parte del gruppo armato dello Stato Islamico. Eppure, non diresti mai che a combattere la pericolosa minaccia jihadista in prima linea sia una donna. Anche perché il gioco si fa spesso durissimo, visto anche il crescente ruolo dei social network in termini di azione intimidatoria e di propaganda in rete. Proprio la Katz è stata di recente minacciata su Twitter, come lei stessa denuncia, da Asawatiri, uno dei leader più in vista dell’Isis. 
 
In realtà, scorrendo il curriculum della fondatrice di SITE, si incrociano determinazione, vicende personali drammatiche e molta competenza. Tutte qualità che non hanno nulla da invidiare al profilo corrente di un qualsiasi 007. Soprattutto per quanto riguarda la capacità di tracciare online i movimenti dei jihadisti. Ma cominciamo dall’inizio. Come racconta il magazine The New Yorker in una lunga intervista risalente al 2006, dopo la nascita in una famiglia composta da altri tre figli, a soli sei anni la Katz va incontro a una grande tragedia personale. Il padre, un uomo d’affari ebreo, viene incarcerato dal regime di Baath e successivamente ucciso durante una pubblica esecuzione in piazza a Baghdad. La madre di Rita, insieme ai tre figli, è costretta a vivere per alcuni mesi in una capanna prima di riuscire a drogare la guardia e scappare. Poi, solo fingendosi la moglie di un famoso generale iracheno, riuscirà a condurre in salvo i figli fuggendo prima in Iran e poi in Israele. Qui la Katz, frequenta il servizio militare nazionale obbligatorio e studia politica ed economia alla facoltà di Tel Aviv. Dopo tante difficoltà la vita sembra finalmente stabile nei suoi contorni massimali. Con la madre avvia un business di vendita di abbigliamento e si sposa con uno studente di medicina dal quale ha 3 figli. Però la propria esistenza di migrante si riaffaccia di nuovo sulla scena. Al marito viene proposto un posto da ricercatore a Washington e l’intera famiglia si stabilisce quindi negli Stati Uniti.

É a questo punto che la propria storia personale trova un collegamento con il mondo dell’attività anti-terroristica nazionale. “So che le persone che hanno ucciso mio padre – dichiara nell’intervista al The New Yorker – non sono le stesse che operano oggi come jihadisti, ma ovviamente non mi sarei mai interessata alla politica in questa parte del mondo se non fosse stato per la sua esecuzione”. La Katz comincia a lavorare nei primi anni ‘90 in ambito investigativo prendendo parte al The Investigative Project, un think tank di ricerca sul terrorismo fondato dall’ex giornalista Steven Emerson. Qui si fa le ossa come indagatrice della rete e profonda conoscitrice dei metodi operativi del terrorismo internazionale. Nel 1999 quando l’algerino Ahmed Ressam viene fermato in Canada con una carica di esplosivo pensata per essere fatta esplodere all’aeroporto di Los Angeles, il team di The Investigative Project è chiamato dalla Casa Bianca per mettere insieme un rapporto più approfondito sulla vicenda. E da lì la studiosa comprende la portata del fenomeno globale, fino a fondare l’organizzazione che oggi vende i propri servizi a una vasta comunità di giornalisti, analisti internazionali e agenzie nazionali anti-terrorismo. E che sembra affermare giornalmente con il proprio lavoro, che la lotta agli estremismi non ha decisamente colore, nemmeno per quanto riguarda il genere.