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Emily Jacir, uno sguardo sulla guerra

L’artista palestinese, pluripremiata negli ultimi due anni, espone al New York Guggenheim le sue opere più rappresentative e, purtroppo, attuali.

Emily Jacir

La guerra guardata dall’interno, filtrata attraverso l’anima di Emily Jacir, 38enne palestinese, vincitrice dell’ “Hugo Boss Prize 2008”. È questo lo scenario che il Guggenheim di New York si prepara ad accogliere da febbraio, per documentare gli aspetti più scomodi di una verità che emerge solo a tratti fra le righe della carta stampata.

Quella di un conflitto arabo-israeliano raccontato da Emily attraverso foto, video, disegni e sculture che, già nel 2007 le avevano guadagnato il “Leone d’oro under 40” della Biennale di Venezia. Grazie al suo stile lirico e allo stesso tempo militante, Jacir espone tranche de vie, tanto intime quanto universali. Le toglie dall’ombra del “muro della vergogna” (che dal 2002 delimita l’”isola” palestinese in territorio israeliano) per sottoporle all’attenzione di un mondo che del conflitto conosce solo gli aspetti ufficiali, il numero dei morti, i nomi dei missili che si abbattono su Gaza e di chi ha deciso di spararli.

Nata a Ramallah, nel 1970, Emily Jacir vive e produce tra la città natale e Brooklyn. Ma nella grande mela, a dispetto dei successi, continua a sentirsi una ‘straniera’ come, del resto, in ogni parte del globo e il suo Mediorente non fa eccezione. È quel che succede, emerge chiaro dalle sue opere, quando si è privati della propria identità, chiusi in una gabbia, isolati dal mondo e dai propri simili, privati dei diritti più banali, come muoversi, giocare, andare a scuola, in ospedale.

Emily lo sa bene, perché membro di quel popolo sradicato che, tuttavia non vuol rinunciare al proprio senso d’appartenenza. Per  questo, sul destino di quei 100mila dollari ricevuti dalla settima edizione dell’Hugo Boss, l’artista palestinese ha le idee chiare. Procurarsi uno studio tutto suo, dove lavorare senza disturbare né essere disturbata o, peggio, cacciata, come già accaduto in precedenza, quando lavorava nello spazio di Williamsburg (quartiere newyorkese nelle vicinanze di Brooklyn).

Per ora, grazie al riconoscimento della “Fondazione Solomon Guggenheim” (che l’ha giudicata “voce più rappresentativa dell’arte contemporanea”), i suoi rifugi tenda, gli algidi landscape, gli specchi in frantumi, partoriti dalla sua realistica fantasia, sono pronti a parlare al gran pubblico, raccontando le proprie storie. Tra queste spicca quella di Wael Zuaiter (a cui l’istallazione vincitrice a Venezia era dedicata), l’intellettuale ammazzato a Roma sul principio dei ‘70 dal Mossad  perché da questi ritenuto responsabile del massacro della squadra ebraica nel corso delle Olimpiadi di Monaco. Una storia d’innocenza, esattamente come quelle dei tanti profughi, costretti dai razzi e dai posti di blocco a rintanarsi come topi in zone sempre più anguste.