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Il trionfo di Aung San Suu Kyi

Aung San Suu Kyi, la lady che ha speso una vita per il suo paese, la Birmania, sale in parlamento. “Abbiamo vinto in 43 seggi su 44” e parla di “vittoria del popolo”

Aung San Suu Kyi
AP

Un piccolo modello di pazienza orientale. Come la goccia, lenta ma perpetua, erode la roccia, Aung San Suu Kyi – liberata nel 2010 dopo sette anni di arresti domiciliari, e detenuta per 15 degli ultimi 22 anni – alla fine sta riuscendo a corrodere il regime militare birmano. Sorridente, tranquilla, pacata: eppure il suo successo elettorale è stato travolgente. Una tempesta che ha sconvolto Myanmar, il nome ufficiale deciso dalla giunta militare che governa la Birmania.

Suu Kyi ha vinto le elezioni supplettive: nel suo seggio di Kawhmu lei e il suo partito (la Lega nazionale per la democrazia) avrebbero travolto il partito di regime Usdp con l’82% dei voti. Ovunque si è votato, al netto di brogli denunciati (ma evidentemente non così massicci e sistematici), la Lnd è avanti, e di parecchio. 66 anni, premio Nobel per la Pace nel 1991, Suu Kyi è a meta strada tra un’irriducibile attivista per i diritti umani, con una fortissima impronta gandhiana e non violenta, e una politica navigata.

Nel rapporto difficile con il regime militare birmano – rapporto che ovviamente la vedeva parte debole – è stata abilissima nel non tirare mai la corda, come un giunco: sufficientemente flessibile per piegarsi, abbastanza forte da non spezzarsi. Figlia del generale Aung San (già membro del partito comunista birmano negli anni Quaranta, indipendenteista, ucciso nel 1947 dai suoi avversari politici), ora Suu dovrà stare molto attenta.

Il presidente Thein Sein (colui che ha ritinteggiato l’impalcatura governativa militare con una mano di vernice civile), preso atto dei risultati elettorali, potrebbe offrire al suo partito incarichi di governo. Una cooptazione insomma, pur continuando a tenere in mano le leve del potere: dividere le responsabilità e incassare in solitaria gli onori. Suu Kyi vuole dal canto suo lavorare in parlamento, ma anche fuori: alleviare le disparità sociali, diminuire il peso dei militari, risolvere i conflitti etnici (per esempio quello con il popolo karen).

Sullo sfondo assiste compiaciuta la grande protettrice di Suu, il Segretario di Stato americano Hillary Clinton. Il possibile ritorno della democrazia in Birmania è una bella operazione di facciata, ma la posta in palio è molto più alta e decisamente diversa: è un’esca lanciata allo stesso regime militare di Naypyidaw, dove Thein Sein – da autoritario ‘moderato’ qual è – vuole giocare su più tavoli geopolitici, liberandosi dal soffocante abbraccio cinese. Si tratta anche di sottrarre un alleato, finora in esclusiva, alla Cina. Alla fine tutto passa dal planetario tavolo di scacchi su cui giocano Washington e Pechino.

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