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Gli archi d’Esperanza

A soli 24 anni è la nuova stella del jazz internazionale.

Esperanza Spalding

A
giudicare dalla dimestichezza con gli ‘archi’, Esperanza meriterebbe
l’attributo d’”amazzone” del nuovo jazz europeo. Se non fosse che, a scoccare
sulle corde, non sono frecce, ma note, giri, scale, che s’inseguono
magicamente, al ritmo delle sue dita divine.

Alla
tenera età di 5 anni, la piccola Esperanza
Spalding mostrava già un’abilità fuori dal comune nel maneggiare uno
strumento, il violino, piuttosto atipico per il sobborgo di Portland dove
viveva dal 1984, anno della sua nascita. Povero sì, ma certo non privo
dell’atmosfera variegata tipica dei quartieri multi-etnici e di un fermento
culturale che già la spingeva tra le fila della sua prima orchestra, la Società
della Musica da Camera dell’Oregon.

Una
bambina prodigio, è fuor di dubbio. La più giovane del corso, ottenuto grazie
alla borsa di studio dell’università cittadina, che la vede innamorarsi del
contrabbasso (oggi suo strumento d’elezione) e conseguire un diploma a soli 16
anni. Da qui alla “Berklee” di Boston, il passo è talmente breve che la
prestigiosa università la assume appena 20enne tra i propri ‘coriacei’ docenti,
visto il talento più unico che raro e la già vasta esperienza accumulata al
fianco di giganti musicali. Stanley
Clarke, Pat Metheny, Donald Harrison, Joe Lovano e la cantante Patti
Austin, sono solo alcuni dei suoi padrini e madrine professionali.
In
effetti – basta guardarla – Esperanza pare davvero il ritratto della sua musica.
La pelle d’ebano, tesa nelle forme esili e armoniose, ricorda il legno piegato
al vapore degli strumenti ad arco. Mentre quel casco di ricci vaporosi, che
ondeggiano in chiave di violino, sembra la replica visiva dell’ordine caotico
del jazz caldo. Vi state chiedendo come mai ancora non ne conoscevate
l’esistenza (sempre che non siate dei veri amatori del genere visto che tra
questi Esperanza è già leggenda)?

Sarà
forse perché la ‘divina’ è appena giunta al suo album d’esordio, da lei
suonato, cantato e composto. Si chiama “Junjo” (Avya Music) e, oltre al talento stupefacente della sua autrice,
sfoggia anche uno stile del tutto originale, testimone della spiccata
personalità musicale e di un imprinting “generoso”. La jazzista nordamericana
smonta i clichè più risaputi, come quello del trio che si divide in virtuosismi
solitari, in favore di un ‘dialogo’ assolutamente inedito che la vede
improvvisare, insieme ai compagni di palco, fraseggi sensibili alla temperatura
emotiva del momento.