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L’esordio di Diane Birch in Italia

Occhi grandi, voce calda e buona musica dal gusto un po’ retrò Diane Birch potrebbe essere una grande promessa della musica

Diane Birch
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Figlia di un pastore protestante, nata in Michigan nel gennaio del 1983, Diane Birch ha trascorso la sua infanzia al seguito della famiglia fra Zimbabwe e Australia, prima di far ritorno negli USA. Diane ha iniziato lo studio del pianoforte a sette anni e a 16 si è trasferita a Los Angeles guadagnandosi da vivere come pianista in locali e alberghi, è in quel periodo, precisamente nel 2006, che Prince la nota e le propone di suonare con la sua band.

Dopo aver raggiunto un discreto successo suonando nei Club, sceglie di andare a vivere a Londra, dove ha potuto contare su un buon contratto discografico ed è proprio nella capitale del rock che ha scritto il suo album di debutto. Le influenze della musica ascoltata in Chiesa dagli inni sacri al gospel e al soul, mescolati alla sua passione per la musica classica e conditi con l’influenza tutta americana del sud – blues, south – soul fino alla East Coast le hanno permesso di scrivere dei pezzi dal ritmo antico proposti con grinta e umori contemporanei per un debutto già vendutissimo in mezzo mondo.

Testi ed arragianmenti meravigliosamente curati: pianoforte ben dosato, voce sincera e flessibile fanno di questo album una buona alternativa per chi sia alla ricerca di un prolungamento a dischi storici come Tapestry di Carole King dei primi anni 70. Diane fonde con sorprendente maturità il pop d’autore di una Carol King al soul dei Sixties e al country post – moderno di una Norah Jones. L’Huffington Post, una delle più rilevanti e seguite testate online, ha pargonato il suo debutto a quello di Bruce Springsteen dicendo di aver assistito all’avvenire del rock.

Il suo disco di debutto “Bible Belt” esce nel 2009 in America, e vede la partecipazione, tra gli altri, di Lenny Kaye (storico membro del Patti Smith Group). L’album, che ottiene buoni riscontri di vendita, esce in Italia l’anno seguente. Il titolo dell’album è un chiaro riferimento alla sua familiarità con la religione ed al Michigan, i brani sono una sorta di album fotografico dei momenti più importanti e significativi della sua vita.

Ascoltando “Bible belt” si scopre un mondo di canzoni retrò, immerse in riferimenti musicali inattuali. Si potrebbe pensare che la sua autrice sia stata ibernata per diversi anni, perdendosi per strada le ultime tendenze. Il singolo “Nothing but a miracle” estratto dal suo album di debutto scivola leggero all’ascolto lasciando un senso di malinconia quasi piacevole, un disperato lamento al cielo da parte di chi non riesce a dimenticare la fine di una relazione nemmeno quando la ragione prende ormai atto dell’inevitabile.
Non c’è da aspettarsi nulla di nuovo o di sconvolgente, da un disco come questo. Ma solo delle buone canzoni, costruite con gusto e diverse da quello che solitamente ‘passa il convento’ radiofonico/televisivo.

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