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Il sogno di Bo

Si apre al Guggenheim di New York, la mostra di Catherine Opie, fotografa lesbica e militante, interprete di un sogno americano, più ampio e variegato.

Catherine Opie

Molti la chiamano con il nome di battesimo, Catherine, altri preferiscono Bo, quello del suo alterego maschile. Qualcuno infine la chiama “mum”. È Oliver, 6 anni, il figlio che la fotografa 48enne non ha paura di rappresentare in tutù rosa, sorridente davanti alla lavatrice della loro casa di L.A. . E non importa quante critiche al vetriolo potranno attirare ritratti come questo, lei continuerà ad esprimere il proprio sguardo sul mondo, senza veli né censure, semmai colorato dalla sua meravigliosa fantasia.

Un punto di vista privilegiato, a quanto pare, visto che si è appena guadagnato una retrospettiva nientedimeno che al Guggenheim di New York. Il museo ne ripropone gli scatti dagli inizi fino ad oggi – tutti debitori del suo personale ‘sogno americano’ – e ne intitola l’esposizione, appunto – “American Photographer” (26/9 – 7/1). Appellativo che, riferito all’artista lesbica, attivista e femminista, potrebbe far sorridere se non si considerasse che l’attributo ‘americano’ può anche fare a meno della valenza conservatrice, puritana e nazionalista a cui il mondo è abituato.

C’è la serie dei primi ‘90, “Being and Having”, 13 ritratti sessualmente ambigui che, dopo l’esordio sulla rivista porno-femminista ”On Our Backs”, la consegnavano all’attenzione (o allo shock) del grande pubblico. Ci sono le stampe al platino della Free way di Los Angeles con cui, immediatamente dopo, invitava il mondo a non considerarla solo nella valenza di lesbica in giubbotto di pelle e tatuaggi. E poi “Domestic”, gli scatti del suo viaggio on the road su fino in Alaska, che collezionano reperti privati, estratti con discrezione e normalità dalle famiglie lesbiche d’America.

Immagini semplici e dirette, epiche o intimiste, ma sempre pittoriche, costruite con la precisione e la pulizia di un Canaletto. Persino la serie dedicata allo sport, con il popolo dei surfisti assisi sulle onde, e quello del football, depositario di una nuova mitologia. Un linguaggio estremamente comunicativo, senza fronzoli, motivato dalla fede di Catherine in un principio capitale, l’onestà. Quella che spera per il suo paese, non appena l’amministrazione Bush vedrà scadere il suo mandato, ma – soprattutto – un valore in grado di difendere le persone dal giudizio altrui.

Mostrarsi in tutta la ‘propria’ bellezza, non in quella che gli altri considerano tale, ecco l’estetica che nutre – attraverso il suo obiettivo ‘trasparente’ – l’arte di Catherine Opie. Seduttiva, provocatoria e come cita dal bel mezzo del suo seno un tatuaggio evanescente… “prevert”.

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